Ricky Gianco suona la chitarra ma se la cava anche al pianoforte. A lui piace inventare canzoni. Fa parte del Clan Celentano e ne ha già scritte, di belle musiche.
Gianni Dall’Aglio è uno dei più bravi batteristi italiani, tra i fondatori di un gruppo che si chiama I ribelli. Ci sono ottimi musicisti in quel gruppo, al momento accompagnano Adriano Celentano nei concerti ma si vede che hanno una gran voglia di esordire in proprio. Per questa ragione chiedono a Demetrio Stratos di unirsi a loro. Demetrio possiede una voce possente, sa partire da note anche molto basse per poi arrampicarsi su tonalità altissime, sempre alla grande e sempre di petto.
È un giorno di primavera del 1967, Ricky e Gianni si trovano nella saletta riservata agli autori della Ricordi in via Berchet a Milano. Gianni aveva registrato alcune idee che gli erano state ispirate da musiche ascoltate a Radio Luxemburg. Quella emittente allora trasmetteva l’avanguardia della musica inglese e americana. Tra le idee di Gianni c’è un pezzo molto orecchiabile ma nello stesso tempo originale. Roba forte, che riesci a cantare quasi al primo ascolto, anche se scende e sale di tono in modo insolito. Ricky si mette al pianoforte, dopo una mezz’oretta la strofa musicale è a posto. Ci vuole ancora un’ora per migliorare le note del ritornello e agganciarlo in armonia con la strofa.
Sembra fatta apposta per la voce di Demetrio quella musica. Lo chiamano e lui prova a cantarla usando un finto inglese, come fa di solito. Proprio in quel momento entra in saletta Luciano Beretta, lui è il poeta del Clan, un uomo colto che sa scrivere testi bellissimi, mica mielose canzonette d’amore.
«Bella sta musica. Che roba è?»
«È un’idea, per ora. Ma, visto che ti piace, ci scrivi un bel testo?»
Luciano resta con loro per un’altra oretta, ascolta e riascolta quel motivo per varie volte, correggendo pure qualche stacco. Si capisce che c’è una storia che gli frulla in testa. Poi registra l’ultima cantata di Stratos, con quelle oscene parole finte dal sapore anglosassone, e se ne va a casa. Il giorno dopo torna con il testo.
«Ragazzi, è una storia d’amore triste, un’invocazione rivolta ad una donna, ma non finisce male. Qualcuno potrebbe anche leggerla come una preghiera dal valore sociale, un discorso al mondo che è pieno di ingiustizie. Son curioso di sapere che ne pensate.»
Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c’è la notte più nera
Occhi spenti
Nel buio del mondo
Per chi è di pietra come me
Pugni chiusi
Perduto per sempre
Non ha più ragione la vita
La mia salvezza sei tu
Sei l’acqua limpida per me, yeah
Il sole tiepido sei tu amore
Torna torna qui da me
Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c’è la notte più nera
Viene l’alba
E un raggio di sole
Disegna il tuo viso per me
Oh, mani giunte
Tu sei qui con me
E abbraccio la vita
Con te, yeah…
Il pugno chiuso porta in sé significati diversi, anche molto diversi tra loro. Può essere simbolo di violenza pura: “con questo pugno ti colpirò”. Può rappresentare un momento di tristezza e protesta: “stringo i pugni per dimostrare il mio dolore”. Potrebbe anche manifestare tenacia: “serro i pugni e vado avanti”. Ma il pugno chiuso può anche essere un potente contenitore di valori: “dentro al mio pugno ci sono le cose in cui credo… e me le tengo ben strette”.
Molto dipende dalla posizione del pugno o dei pugni rispetto al corpo. Se il braccio è teso in avanti il senso del tuo pugno diventa inequivocabile. Diverso se lo presenti a braccio piegato, a metà corpo, magari con il palmo rivolto in basso. È chiaro che stai esultando se alzi entrambe le braccia a pugni chiusi.
Verso la fine degli anni ’60 abbiamo visto persone che alzavano verso il cielo un braccio solo, con il pugno chiuso, magari avvolto in un guanto nero, magari con la testa bassa, magari in gruppo. Ecco, in quel pugno rivolto al firmamento ci stanno dentro tutti i significati di tutti i pugni del mondo.
Hiroji Kubota
Black Panthers protesting in Chicago, Illinois
1969
Hiroji Kubota
Chicago
USA, 1968